La famiglia del Conte e la sua brigata seguitò il viaggio alla volta di Milano, e Ottorino, il quale non aveva più nulla da fare a Monza, si offerse, com'era da pensare, di tener loro compagnia.
- Vi assicuro di no, che non v'ho scritta altra lettera dopo quella che avete ricevuta a Limonta per mano d'un mio servitore, - diceva il giovine cavaliere al padre di Bice cavalcandogli a paro. - Eppure, - rispondeva il Conte, - quei pescatori di Vassena, che v'ho detto, affermavano propriamente d'aver una vostra lettera, anzi dicevano che era stata consegnata ad essi da Lupo qui sulla piazza del mercato di Monza.
Lupo fu chiamato, e si seppe che la lettera era stata mandata da lui medesimo a suo padre per avvisarlo che si mettesse in salvo: egli l'avea fatta scrivere a Monza da un prete suo conoscente, e datala appunto a quei pescatori.
- Ah! adesso capisco, - diceva il Conte; e continuando a parlar sotto voce col giovane cavaliere: - ditemi un po', - gli domandava, - che cos'è che m'avete scritto? che l'abate di Sant'Ambrogio...
- È fuor de' gangheri affatto, - diceva Ottorino, - e adesso poi qui a Monza ho sentito che questa notte s'imbarcheranno a Lecco le sessanta lance, che ha disegnato di mandare a sterminar i poveri Limontini.
- Misericordia! ma io, che cosa c'entro io? da me non è restato che quegli ostinati di montanari non si sottomettessero ad ogni volere del loro signore.
- Che volete che vi dica? se il cardinale l'ha anche con voi.
- Oh poveretto me! ma io non ci ho a che far nulla, vi ripeto: dice che io li proteggo; fate voi, chè della vostra lettera e di quel di più che mi disse a bocca il messo, io non ne ho pur fiatato con nessuno.
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