Giunti nella via, il Conte le dimandò la spiegazione di tutto quel viluppo; ma ella affrettava il passo senza dargli risposta, premurosa di arrivare al fidato rifugio della propria casa. Ma da lì a un poco, rammentandosi della lettera di Marco, se la trovò alla cintura, ne la trasse fuori, e mostrandola al padre diceva: - È qui, è qui.
- Che cosa?
- La grazia di Lupo. Una lettera per l'Abate scritta da Marco.
- Ma dunque... io non capisco... se t'ha conceduto quel che gli hai chiesto... Non me n'avresti già fatta un'altra più grossa? che ti fosse scappato di bocca il nome di... di Ottorino?
- Me ne ha domandato egli medesimo.
- E tu che cosa gli hai risposto? come ti sei portata?... via, parla... scioglila quella lingua.
- Oh lasciatemi stare, lasciatemi stare... dirò, tutto, lo dirò a mia madre...
- Ecco quello a che vanno a riuscire le vostre soppiatterie. Basta, ricordati di quel che ti dico adesso: colui non l'hai da veder più, hai capito? mai più non l'hai da vedere.
Bice non fiatava, e tutta ancor sottosopra non sentiva bene l'importanza di quelle parole, non avea senso bastevole nell'animo per addolorarsene.
Per tutta la via il Conte non fece altro che tempestare e bollire, or sodo, or sommesso; giunto alla porta della sua casa, disse alla figliuola: - Dà qua a me quella carta; - essa obbedì, ed entrarono.
I parenti di Lupo, Ermelinda, Ottorino e la famiglia gli stavano aspettando. Appena fur visti spuntare nell'androne, che corsero loro incontro coi lumi accesi; ma, al ravvisar la faccia di Bice e quella del padre di lei, fu un solo pensiero di tutti: tennero il povero Lupo bell'e spacciato, onde si levò un grido, un compianto generale.
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