Per la via, com'è naturale, non fecero mai altro che parlar di Lupo.
Questi intanto stava passeggiando in un camerotto terreno di una delle torri dell'Abazia di Chiaravalle, dov'era una tavolaccia di noce con suvvi una lucerna accesa, un crocifisso di legno appeso ad una parete, ed un inginocchiatoio dinanzi a quello. Quattro soldati facevan sentinella all'uscio, un quinto stava nella camera in compagnia del prigioniero; codesto quinto era il Vinciguerra, uno di quelli che s'era tolto con sè il Bellebuono in quell'ultima sua spedizione di Limonta che abbiam raccontata.
Il condannato aveva il passo fermo, la fronte sicura, e stava appunto favellando col Vinciguerra di quel fatto per amor del quale si trovava in chiesina.
- A vedere come ce l'ha sonata quel villano birbone! - diceva il Vinciguerra.
- Ohe! - rispose Lupo, - non tanti scialacqui del tuo.
- Come a dire?
- Come a dire, che se vogliamo stare buoni amici, non vo' sentire male parole di quella brava gente.
- Ih! voi altri! tutti così, per reggervi l'un l'altro fareste non so che cosa; già, sei montanaro e tanto basta.
- Sicuro, e me ne vanto: meglio sparvier di rupe che anatra di palude.
- Sì, sì, tu sei di Limonta ed io di Chiaravalle; ma in fine, sei da quanto me anche tu: vassalli del Monastero tutti e due, fa bisogno di tanta superbia?
- Vassallo del Monastero sì, pe' miei peccati; ma io però non gli ho mai serviti costoro. Che bellezza eh? veder levarsi a comandarti una mano coll'aspersorio, un capo colla chierca: dev'esser proprio un desìo.
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