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      Il Visconte, all'udire il suo servitore parlare con quell'aria beffarda d'una creatura, alla quale egli non volgea mai l'animo senza esser preso da un brivido riverente, non potè più contenersi, e levando la voce esclamò: - Bada di chi parli e a cui, paltoniere sfacciato! o per la vera croce! ch'io ti darò tal ricordo che n'avrai a portar il segno finchè il capo ti duri sulle spalle. - Il dir questo e l'accennargli l'uscio con una mano, e il metterlo fuori, fu tutt'una: il Pelagrua balbettando qualche parola di scusa se n'andò via come un cane scottato, e aspettando che il padrone lo facesse chiamare un'altra volta per congedarlo, si mise ad almanaccare su quelle parole, su quello sdegno.
      Egli avea sempre creduto, al par degli altri, che Marco non vedesse in Bice che un impedimento al parentado d'Ottorino colla figlia del Ruscone; sapea che quel parentado era voluto da lui, e conoscendo la sua natura, non gli poteva parere strano quanto di più rovinoso avesse tentato mai per una picca in che fosse entrato. Allorchè lo vide combattere contra il suo cugino (e il castellano era il solo a parte del segreto, chè il Visconte s'era servito di lui per aver chi lo provvedesse del morione, e chi gli trovasse uno scudiero sconosciuto in quei dintorni), avvisò che quella non fosse altro che una sua vendetta dell'avergli il giovane falsata la parola. Quando Marco, prima di partire, gli ordinò di vegliare sopra Ottorino, se mai praticasse in casa del conte del Balzo, il Pelagrua non entrò in nessun sospetto, non fece altro pensiero; e però egli era ben lontano dall'immaginarsi ora l'impressione che faceva il suo discorso sull'animo del padrone.


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Marco Visconti - Storia del Trecento cavata dalle cronache di quel tempo e raccontata da Tommaso Grossi
di Tommaso Grossi
Vallardi Editore Milano
1958 pagine 484

   





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