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      Limonta, come il lettore sa, era terra feudale del monastero di Sant'Ambrogio; ora l'Abate, creatura dell'imperatore, dal quale aveva avuto l'esser suo, capite bene che non volle levargli contro i propri vassalli: in fatti egli avea mandato anche quivi, come in tutte le altre terre del Monastero, un bando fulminato: "Che nessuno, a pena di fellonia e di scomunica, fosse tanto ardito di favorire in qualsivoglia modo il partito di Azzone, ribelle al suo natural signore, e ribelle al sommo pontefice Nicolò V, e fautore dello scismatico, dell'eretico, dell'omicida, del negromante, colmo d'ogni vizio e d'ogni iniquità, Pietro Iacopo di Caorsa, il quale si fa chiamare temerariamente papa Giovanni XXII". (Non vi faccia scandalo; erano i soliti titoli che si ricambiavano a vicenda i fautori del papa e quelli dell'antipapa). I Limontini furono un po' sbigottiti alla prima di quella grande sparata, ma quando ebbero inteso che il reverendo prelato se l'era côlta, perocchè in Milano e nel contado non tirava buon'aria per lui, ne fecero una festa maravigliosa. Non era un poco ristoro per quella povera gente l'uscir dalle unghie d'un prepotentaccio che li tribolava da tanto tempo, che avea fatto loro il bel regalo di quella cara gioia del Pelagrua, che avea mandato le sessanta lance in paese a farvi quella cerimonia che sapete, che minacciava di mandarne quando che fosse dieci volte tante a rovinarlo dai fondamenti, a impiccare tutti i Limontini per la gola. Allorchè i sacerdoti, mandati dal pontefice, capitarono da quelle parti per eccitare i Limontini ad armarsi contra il Bavaro, non è da dire le pazzie che fecer loro d'intorno quei montanari, con che furia di gioia baciavan loro le mani e le vesti, e li portavano in trionfo.


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Marco Visconti - Storia del Trecento cavata dalle cronache di quel tempo e raccontata da Tommaso Grossi
di Tommaso Grossi
Vallardi Editore Milano
1958 pagine 484

   





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