Il Limontino, il quale, al primo sospettar che Marco fosse in pericolo, s'era deliberato a una delle due, o salvarlo o farsi accoppare, sentì rimettersi il cuore in petto quando lo seppe fuor delle peste. Non rimanendogli più nulla da fare a Lucca, si rimise tosto in cammino per cercarlo a Firenze, chè ben pensava di che importanza fosse il sollecitare il ricapito della lettera d'Ermelinda, dalla quale poteva forse pendere la vita di tre persone, che per diversi rispetti gli erano tutte così strettamente care. Dunque a cavallo, e innanzi. Il viaggio da Lucca a Firenze è piuttosto lunghetto, e non sembra che i miei lettori abbiano una voglia tanto spasimata di tenergli compagnia, e però lo lasceremo camminar solo a suo agio, e noi, cambiando scena, ci trasmuteremo addirittura sull'Arno, dove, fin che il Limontino arrivi, potremo occuparci un poco di Marco.
CAPITOLO XXIX
Dopo l'ultima lettera scritta da Marco a Lodrisio, quella che il tristo, ve ne ricorderete, ricevette dalle mani del Pelagrua nel castello di Rosate, le cose di Lucca eran sempre andate di male in peggio. Le bande alemanne, composte di avventurieri ingordi, crudeli e intolleranti di ogni disciplina, s'eran condotte a tale che ricusavano alla fine risolutamente di star soggette al Visconte.
Marco, alle mani ogni giorno con quella scapestrata canaglia, dovea la poca sommessione, che non gli veniva ancor ricusata, la dovea alla gloria del suo nome, alla maestà della sua presenza, alla facondia del dire; doti alle quali ogni moltitudine suol sempre andar presa quasi a suo dispetto.
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