Dopo uno sconcio e precipitoso viaggio, giugnendo a Milano, mandò i suoi due scudieri coi cavalli al proprio palazzo, ed egli a piede colla sola compagnia di Lupo, corse alla casa del conte del Balzo, risoluto di aver ad ogni modo un colloquio con Ermelinda, per intendere da lei le novelle dei trafugati se mai intanto le fosse venuto fatto di raccoglierne, onde potersi tosto e provvedutamente adoperare al loro scampo; e per iscolparsi nel tempo stesso in faccia sua, per chiarirla com'egli non avesse tenute le mani a sì nefanda turpitudine; perocchè non poteva patire di sapersi macchiato di tanta bruttura nel concetto della donna ch'egli avea già amata più della sua vita medesima, e che riveriva pur sempre sopra ogni altra creatura al mondo.
Era notte alta e piena di tenebre, quando Lupo bussò alla porta del palazzo del Conte, e Marco si calò sul volto la visiera per non esser riconosciuto dai servi. Fu aperto: tutto taceva là dentro: il Limontino fece attraversare al Visconte molte sale in fila, e lo condusse finalmente in una cameretta rimota, dove lo lasciò solo con una lucerna accesa, dicendogli come egli corresse intanto a svegliare una vecchia fante di Ermelinda, perchè desse parte alla padrona dell'arrivo di lui, e del bisogno che avea di favellarle tosto.
Marco, slacciatosi l'elmo, se lo cavò e lo depose sulla tavola, poi gettossi su d'una seggiola ad aspettare che Ermelinda venisse. Erano venticinque anni che non l'avea veduta: quante vicende! che rivolgimenti nei loro casi da quel tempo in poi! come l'avea lasciata! come la troverebbe! con che cuore sostenere quel suo sguardo, che gli avrebbe rimproverata la morte del padre, e la presente desolazione, dopo tanto amore e tanta virtù!
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