Tra questi, il legittimo abate di Sant'Ambrogio Astolfo da Lampugnano, rientrato nel suo antico convento, da cui era stato escluso per tanto tempo, fu rimesso in tenuta di tutti gli antichi possedimenti, e così anche di Limonta. Al primo metter piede in Milano, egli scrisse una lunga lettera al pievano del paese, lodando lui e tutti i Limontini della fedeltà che avevano sempre mostrata al loro legittimo signore, compassionandoli di tutte le vessazioni che avevan dovuto patire sotto l'intruso abate, al quale non vennero risparmiati i soliti epiteti di scismatismo, d'eretico, di mago, di figlio del demonio; e in fine, quel che più monta, accordò loro esenzioni e privilegi in ristoro del mal passato.
Quei nostri buoni montanari riapersero con grande solennità la loro chiesetta di San Bernardo: la campanella si ricattò dal suo lungo silenzio sonando a distesa, a gloria, a Dio lodiamo, per tre giorni e tre notti alla fila, senza un momento di respiro, chè era una furia d'uomini e di ragazzi a strapparsene l'un l'altro la fune, a salir sul tetto, e dondolarla a braccia, e martellarla con ferri e pietre a chi meglio. Si piantarono archi rusticali di trionfo, si fecero processioni, si cantarono messe, e mattutini, e compiete, e vespri, che fu un subisso. Finalmente fu celebrato un uffizio generale pei morti nel tempo dell'interdetto, finito il quale, si avviarono tutti a due a due, gli uomini prima, poi le donne, verso il cimitero, dove si misero in ginocchio a dire il rosario. Una pia e solenne compunzione, un grave e tacito gaudio, era su quei volti chinati divotamente alla preghiera.
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