Da me ardiva pretendere un atto di contrizione delle colpe commesse, poi si contentava di un atto di fede, che gli servisse di modello per confrontarvi in ogni tempo la mia futura condotta; altrimenti minacciava mi avrebbe fatto durare fino a dieci anni in carcere. Artificiosa era cotesta improntitudine del pari che temeraria; però che il Partito intendesse strapparmi uno scritto qualunque, che poi, interpretato con la solita carità, gli servisse a dimostrare che non senza motivo si era mosso ai miei danni. Intanto il Governo, liberati i compagni della mia prigionia, riteneva me, che avevo dichiarato non volere uscire, dove alla mia fama non si desse convenevole riparazione; e il Principe nel 22 marzo 1848 dichiarava, che gli atti a me obiettati si riducevano ad una preordinazione per ispingere possibilmente verso una meta, cui le sopravvenute mutazioni politiche in Italia hanno a noi permesso di pervenire senza pericolo del nostro Popolo; aggiungendo che la loro illegalità era sparita dopo che lo Statuto ne aveva assicurato il conseguimento con letizia comune del Governo e dei governati. Onoratissime parole, almeno in cotesti tempi, ma non meritate affatto, imperciocchè, come ho avvertito, le mie erano proposte da accettarsi o da ricusarsi, non già leggi da imporsi; pure tacqui, avendo promesso non suscitare imbarazzi al Governo con importuni reclami.
Forse per questo il Partito quietavasi? No. Persone non vili andavano dal Governatore Bargagli, e lo ammonivano che della quiete di Livorno non gli rispondevano, se io vi fossi comparso; e siccome il Bargagli, ormai infastidito, disse loro: "che gli ringraziava dei consigli, e che io sarei tornato ad ogni modo," poco dopo egli si vide comparire davanti una persona vile, che minacciò mi avrebbero ucciso a furore di Popolo, se avessi posto piede a terra.
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