Nonostante scrissi per via telegrafica: "desiderare non vederlo; fosse trattenuto, potendo, in Livorno(354);" pure egli venne, ed io lo accolsi con volto sereno e mente pacata; e dopo avergli posta davanti gli occhi la lettera del Frugoni, lo interrogai, che cosa avrebbe fatto nel caso mio. Rispose non essere in sua potestà impedire allo stolto che favellasse secondo la sua stoltezza; e siccome questa mi parve convenevole scusa, tacqui; non ugualmente bene poteva scolparsi intorno alla guerra mossa contro il Governo per istrascinarlo di viva forza alla Unione con Roma, e a proclamare la Repubblica, o rovesciarlo. "Orsù via, partiti di Toscana," gli dissi. "e tutto è posto in oblio." Partì per Livorno menando a lungo la partenza, finchè crescendo le manifestazioni di anarchia, aombrate dal pretesto della Repubblica nel 14 marzo, contemporaneamente al richiamo del Governatore a Firenze per via telegrafica, scrissi a Livorno: "S'inviti La Cecilia a partire subito, anche per terra, per Genova, donde recarsi al suo destino. Qualora non volesse appagare questi nostri desiderii, noi l'avremmo per tradita amicizia. Gli si partecipi il Dispaccio(355)." Allora si condusse a Genova; e quivi si andò indugiando sotto vario colore, finchè i successi della guerra gli dettero campo di presentarsi come utile alla difesa del Paese.
Da Genova nel 27 marzo mi scrisse La Cecilia la lettera che leggiamo a pagine 222 dei Documenti dell'Accusa; in questa ei parla di errori commessi dai Comandanti piemontesi nella battaglia di Novara; poi propone due mezzi di difesa, di cui il primo sarebbe stato plausibile per quello che in tempi antichi e moderni ne hanno scritto peritissimi uomini di guerra; il secondo avventuroso e impossibile.
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