Consideriamo piuttosto la Unificazione con gli Stati Romani.
Trovavo dentro (e fu sovente materia delle mie conferenze col Capo del Municipio fiorentino, e con altri precipui cittadini così di Firenze come delle Provincie, delle libertà costituzionali fidatissimi amici) repugnanza infinita di lasciare uno stato certo e provato sufficiente, per avventurarci in condizioni ignote, piene di pericolo, allo universale per nulla necessarie, dalla maggiorità rigettate.
Trovavo che i Toscani, ed in singolare modo i Fiorentini, sentivano inestimabile molestia a ridursi in grado di provincia romana, mentre ab antiquo avevano formato florido stato, copioso di commercii e pieno di gloriose memorie.
Trovavo che i Toscani aborrivano di rendersi solidali al fallimento della finanza romana, e ostinatissimi contrastavano per non essere tratti in cotesto vortice di debito.
Trovavo che Firenze non si adattava a restare priva della sede del Governo, fonte per lei non pure di decoro, ma di vantaggi notabili, sia per la stanza degl'impiegati, sia pel concorso di quanti muovono dalle Provincie quaggiù pei loro negozii col Governo; sia finalmente pel soggiorno dei forestieri, i quali sogliono fermarsi nelle Capitali.
Trovavo la classe commerciante di Livorno paurosa di scapitare in pro di Civitavecchia, il quale porto, come prossimo alla metropoli della Italia Centrale, non ha dubbio che si sarebbe ampliato con danno di Livorno.
Trovavo costumi diversi, diversi i gradi di civiltà, diverse le maniere del vivere, l'economie ed altre più cose, che non consentono che Unificazione piena e assoluta ad un tratto si faccia, o fatta non abbia poi a dolere.
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