Dante gli appressa alle labbra la tazza; e mentre egli beve, suo malgrado una lagrima gli prorompe dagli occhi e giù scendendo si mesce alla bevanda, sicchè Nicolò lo guarda fisso e dopo alcuni istanti favella:
Nella estremità a cui mi trovo condotto, nissun liquore può meglio confortarmi le viscere, Dante, della vostra pietà: ve ne renda Iddio quel rimerito che a me non è dato; ben aveva mestiero di questa consolazione l'anima mia, prima di volgersi a considerare la ingratitudine umana. Gran mercè, Dante, gran mercè; voi mi avete apportato un bene maggiore di quello che potete immaginare: che voi mi teneste in pregio, sperava; che mi portaste affetto, forte temeva: ora poi saluterò la morte come amica, dacchè sopra la soglia del sepolcro mi accorga non avere perduto la speranza e trovato l'amore.
Tacque, e seguì un silenzio tanto profondo che ben si udiva lo zufolio sottilissimo dell'insetto aleggiante intorno ai moribondi; dopo lunga pausa, il Machiavello, crollando il capo, continua:
Il mio cuore non conobbe altro palpito che per la patria: queste braccia lacerò il carnefice per amore della patria...; che importa? Non sono ancora sceso nel sepolcro, e gli uomini mi calpestano il cuore come una pietra; i nervi e l'ossa dei bracci spasimano di cocentissima angoscia, e gli uomini mi accusano averli adoperati ad ammaestrare tiranni; questi bracci niegano accostare alla mia bocca una bevanda, ed essi affermano essersi distesi ad implorare l'elemosina ai miei persecutori; della fama incontaminata in fuori non lascio ai miei figli altro retaggio, e non pertanto m'invidiano anche la fama.
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L'Assedio di Firenze
di Francesco Domenico Guerrazzi
Libreria Dante Alighieri Milano 1869
pagine 1163 |
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