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      Ludovico Martelli, precorrendo la compagnia della milizia fiorentina di cui era capitano, entra nella tenda, e, viste le carte, lo prende vaghezza di leggere quello che contenessero. Il poeta aveva tracciato le due prime terzine della satira nella quale descrive il travaglio della città assediata; - le terzine dicono così:
      /* Sovra i bei colli che vagheggian l'Arno E la nostra città, che or duolsi et have Pallido il viso e lagrimoso indarno, Sono un di quei che con fatica grave Al marzïal lavoro armati tiene Quel che di Pietro ha l'una e l'altra chiave. */
      Arse di nobile sdegno il Martelli e, recatasi nella mano la penna, subito scrisse sotto continuando:
      /* Ma non sarien l'empie sue voglie piene, Se d'italico sangue alcuna stilla, Snaturato, tu avessi entro le vene. */
      Poi gettata la penna, esclamò:
      In verità a chi ebbe intelletto da conoscere il malefizio, e il cuore non gli basta per sfuggirlo, la giustizia di Dio apparecchia doppia pena nell'altra vita.
      E poichè, tra tanti orrori nei quali va trattenendosi la mente, un esempio di virtù giunge gradito come aurea fresca che ristori il sangue, - giova qui ricordare - che il Bentivoglio, tornato nella tenda, avendo letto quel foglio, sentì divamparsi il volto di vergogna; gli venne in fastidio la turpe vita e, pretestata certa sua infermità, si ritrasse dal campo; perocchè la musa infonde nell'uomo con la mente arguta un senso gentile, che rifugge dalle opere inique come da sconcezze che bruttano l'armonia del creato.
     
      Qual mai cagione impedisce al principe Filiberto d'Orange di prendere un riposo che la natura concede al più misero dell'esercito imperiale?


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L'Assedio di Firenze
di Francesco Domenico Guerrazzi
Libreria Dante Alighieri Milano
1869 pagine 1163

   





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