Non gli ascoltava; volle ad ogni costo imprendere la cava. Il capitano fiorentino fingeva non accorgersi di codeste mene e lasciava fare; quando tempo gli parve, di notte con diligenza infinita piantò alquanti pezzi di artiglieria sopra un cavaliere, con la bocca volta verso lo spazio che correva tra la trincea ed il campo del nemico: ciò compito, divenuta la notte più nera, ordinò a Goro da Monte Benichi, soldato di molto valore, uscisse da Porta Fiorentina con la sua compagnia, e con le corde degli archibugi coperte, per non essere osservato, si conducesse alla cava e sturbasse la impresa. Andò il capitano Goro, e comecchè egli restasse sul primo incontro ferito di una picca nel petto, combatteva con tanta virtù che il nemico non seppe resistergli. Qui mentre si levava rumore grande di voci, di colpi di archibuso e di passi di fuggenti e d'incalzanti, Ferruccio col corpo steso sul terreno oregliava per sentire se alcuno si movesse al soccorso.
Maramaldo, udito il trambusto e prevedendo l'evento, si dava della mano per la fronte e su l'anca, bestemmiava Dio, se la prendeva contro le stelle, faceva cose insomma da muovere al riso chiunque gli stava d'intorno; rimesso alquanto da quel primo furore, ordinò si soccorresse la cava: sapere bene egli quello che diceva; se non gliela guastavano, doversi rendere Volterra; andassero, corressero, mostrassero all'imperatore che anche Fabrizio Maramaldo sa vincere. Nessuno mutava passo, conoscendo di andare a morte certa ed inutile. Fabrizio di pazza ira avvampava: irrompendo in parole forsennate, li tacciò di codardi.
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L'Assedio di Firenze
di Francesco Domenico Guerrazzi
Libreria Dante Alighieri Milano 1869
pagine 1163 |
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