I suoi soldati gli avevano posto tanto singolare venerazione che se egli avesse comandato proseguissero il cammino, comecchè rifiniti dalla stanchezza, avrebbero obbedito. Ferruccio, li vedendo trafelati, co' piedi sanguinosi riarsi al sole, e per altra parte pensando che stavano per avventurarsi in sentieri ancora più aspri, con maggiore pericolo di essere assaltati, ordinò facessero alto, di riposo convenevole confortassero le membra.
Nè in quei remoti tempi era Livorno fastidievole vista per un'anima repubblicana. Certo, non per anche il commercio l'aveva ingrassata sì da non dar luogo a sentimento altro diverso che non fosse guadagno; non le erano divenuti ancora nomi del tutto ignoti patria e libertà; non ti pareva, al primo porre il piede nella sua piazza, udire rinnuovato il caso di Babele o piuttosto il vestibolo dell'inferno rimbombante per voci alte e fioche; non ancora, onde crescesse di popolo, l'avevano convertita in asilo di ladri, falsari, di ogni risma ribaldi; no, Livorno non era anco fatta la tavola di salute a quanti mai tristi vissero nel mondo. Livorno abitava poca cittadinanza, ma pura fino all'ultimo artista; breve si estendeva il giro delle mura, ma su quell'umile castello si era posata una stella, come già sul presepio di Betelemme; i suoi bastioni erano stati consacrati col sangue dei cittadini sparso in difesa della libertà, i suoi ripari resi illustri dalla vittoria.
Tutto questo ignora Livorno popolosa, Livorno intenta ai subiti guadagni. Eppure, come Dio volle, avvenne che un uomo si ostinasse a lanciarvi dentro la voce di patria, e sentendola ripetere mille volte, esultò immaginando quivi palpitassero mille petti cui largivano i cieli il dono pericoloso di amare la patria.
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L'Assedio di Firenze
di Francesco Domenico Guerrazzi
Libreria Dante Alighieri Milano 1869
pagine 1163 |
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