Tuttavolta se m'interdico dir bene dei miei scritti, prego licenza per dirne alcun poco di male. Rileggendo adesso la Battaglia di Benevento, parmi libro ardentissimo e non di bella fiamma: vi traspira dentro certo sgomento per nulla naturale alla età in cui lo dettai, che fu il mio ventunesimo anno, e un alito di dubbio, che appena si perdona agli uomini i quali sviati dalle decezioni si sentono sazii di vita: fra tutti i tristi peccati, pessimo. Di ciò ne incolpo tre cose principalmente: i molti guai, che me fino dai primi anni inasprirono, e la pazienza corta a sopportarli; la condizione dei tempi, che parve agli inesperti irrimediabile; e il culto che professavo e professo ancora a Giorgio Byron. Ma se questo basta alla scusa, non giova alla lode, conciossiachè l'uomo deva tenere in sè la sua tristezza, e non ispanderla a sgomentare l'anima altrui; abbia virtù di adoperare egli vivo la carità della quale io rinvenni cortese un morto. Nel Cimiterio inglese dentro le mura di Livorno, occorre una lapide dove si legge incisa la iscrizione che parla così. "Morii di tristezza1 sul fiore degli anni: passeggiero, leggi il mio nome, e affrettati ad allontanarti, per sospetto che il vento ti soffii addosso parte della mia polvere, e ti attacchi il male crudele che mi condusse a morte."
Rispetto alle condizioni dei tempi, la esperienza dimostra unicamente vero il consiglio che dava Focione al suo giovane amico: "Non è lecito, o Nicocle, disperare giammai della salute della Patria." Ma la esperienza, anche per coloro a cui frutta, è pianta tarda.
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