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      Ormai il governo di Federigo era divenuto increscioso alla più parte delle città lombarde; nessuna poteva sperare di resistere sola: unite, sarebbe stata cosa da tentarsi, e la tentarono. Prima Verona ne fece proposta: Padova. Vicenza, Treviso, acconsentirono seconde; poco dopo Venezia. Federigo, ch'era tornato in Lamagna a cagione di una sommossa, scende nuovamente in Italia, ma adesso per Valle Camonica onde evitare i Veronesi. Seguiva un congresso nel Monastero di Santo Jacopo in Pontida, tra Milano e Bergamo, dove gli abitanti della Marca di Verona convengono con Mantovani, Cremonesi, Bresciani, Bergamaschi, Ferraresi, e Milanesi, e giurano di non posare le armi finchè non abbiano i perduti diritti ricuperato. Federigo evitando questa improvvisa tempesta va a Roma, in parte la incendia, poi muove per Napoli. La peste gli distrugge l'esercito; a guisa di fuggiasco passa per Lucca, e s'incammina a Pontremoli, di cui gli abitatori gli si oppongono, e minacciano arrestarlo: sovvenuto dal Marchese Malaspina giunge a salvarsi in Lamagna. La Lega, divenuta di giorno in giorno più formidabile, fabbrica tra il contado di Pavia e quello del Conte di Monforte, nel confluente del Tanaro e della Bormida, sopra un terreno limaccioso e arrendevole, una città che in onore di Alessandro Pontefice chiamano Alessandria. Federigo oltremodo sdegnoso per questi avvenimenti, non potendo venire in persona, mandò per reprimere la ribellione il suo Vicario Cristiano Arcivescovo di Magonza: questi dopo alcuni fatti, che si vorrebbero raccontare se mostrassero almeno quella specie di coraggio che mostra il ladrone su la pubblica via, stringeva d'assedio Ancona.


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La battaglia di Benevento
Storia del secolo XIII
di Francesco Domenico Guerrazzi
Le Monnier Firenze
1852 pagine 699

   





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