Trapassarono le feste, e fu imbandito l'ultimo banchetto: sedeva Manfredi in faccia a Corrado, e con molte parole ora cortesi, ora amorose, lo lusingava; all'improvviso si levò in piedi, e vôltosi verso un donzello saracino gli disse: "Alì Haggì, pel Profeta che ha visitato, porgimi di quel buon vino col quale Federigo soleva propinare alla salute di sua casa." Il Saracino gli porse un fiasco di argento, Manfredi n'empì una tazza (la sua era già piena), e la offrì a Corrado esclamando: "Alla salvezza di Svevia, all'Aquila nera in campo d'oro!" – "E all'Aquila di argento in campo azzurro!" rispose Corrado, e presa la tazza, vi accostò le labbra, e speditamente la vuotò. Manfredi era rimasto con la sua alla mano, e gli occhi senza sua volontà stavano fitti sul volto di Corrado; quando questi ebbe posato la tazza, egli accostò precipitosamente alla bocca la sua, quasi per nascondervi il volto, e la bevve ad un tratto. Poi ostentando una gioia smoderata chiese un liuto, ma nell'accordarlo spezzò le corde:– gettò lo istrumento e si pose a cantare: la sua voce era angelica, – ma confondeva i suoni, disordinava la musica; l'anima in somma era lontana da prestarsi a quegli ufficii. Finiva la festa, ed ognuno si ritirava al riposo. Manfredi pure andò a trovare il suo letto, ma s'egli vi trovasse riposo io non lo posso accertare. Non erano molte ore ch'ei vi giaceva, allorchè una voce traverso la porta gridò: "Messere il Principe, svegliatevi, accorrete, l'Imperatore si muore!" Manfredi balzato da letto si pone una maglia di ferro sotto le vesti, ed esce precipitoso.
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