Ad un tratto mi si presentò il Maggiordomo del mio castello, sgomento come persona travagliata da irreparabile sciagura: – Monsignore, Monsignore, fiero caso accadde nel vostro castello! – voi non avete più castello: vennero stamane cento uomini d'arme, che si sono fatti calare il ponte a nome del Re, ne hanno cacciato la vostra famiglia, e ne hanno preso possesso. – Gran Dio! qual mai misfatto ho commesso perchè tanto duramente debba essere perseguitato! – Oh! Monsignore, a capo dei cavalieri vidi tale uomo, che per quanto si nascondesse il viso giunsi a riconoscere. – Chi? dillo! – Quel Cavaliere che vi faceva l'amico, che veniva a prendervi sovente per andareinsieme alla foresta, – quell'alto, bruno, che abita il palazzo della pianura. – Drogone? – Monsignor sì, Drogone. – Non dissi parola: ma da quel punto feci un orribile giuramento, che in rammentarlo mi si arricciano i capelli, nè mi sta ferma fibra del corpo: promisi l'anima al Demonio, rinunziai al battesimo ed agli altri sacramenti, se, innanzi di morire mi avesse fatto vedere il cuore del traditore. Diventai più di qualunque codardo avaro della mia vita, e ben mi fu d'uopo confortarmi, che due giorni appresso il fidato Maggiordomo venne a dirmi, aver saputo da persona del castello, come mandavano gente per arrestarmi; come di omicidio proditorio mi avesse accusato Drogone alla Corte di Giustizia, come molti miei proprii vassalli avessero attestato contro di me, e giurato, che nella notte dell'incendio io gridava ad alta voce essere stato l'uccisore di Berardo; aggiungeva che furono spedite le citazioni, ma non consegnate, perchè mi condannassero in contumacia; di tutto questo doversi incolpare Drogone, che, per essere creatura del Conte della Cerra Gran Camarlingo del Regno, poteva agevolmente tutte queste cose conseguire.
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