Era trascorsa qualche ora che andavano così, senza sapere dove, vaganti di onda in onda, allorchè ad un tratto la galera percuote aspramente in un corpo che le si para davanti, e crolla in tanto dura maniera che sembra doversi sfasciare. Si alza un grido, – il grido della disperazione! che temerono di avere investito in uno scoglio; ma quando il grido cessò, – che tutte le cose hanno fine, sieno pur quanto vogliono liete o affannose, – ne ascoltarono un altro non meno terribile lì presso di loro. – "È forse alcuna delle nostre galere che battuta dalla tempesta ha cozzato con noi?" diceva una parte di marinari; – altri: "No, è una galera genovese, l'abbiamo riconosciuta alla forma;" – altri: "È siciliana:" – altri, altra cosa, ma i più convenivano che fossero i nemici.
I nemici! i nemici!
urlano da ambedue le galere; e se avessero potuto manifestare gli scambievoli desiderii, per quella notte si sarebbero lasciati stare.
Carlo d'Angiò, che fu veramente valoroso Cavaliere, per nulla si commuove a quei gridi, e come magnanimo si dispone, da che non può fuggire la battaglia, a uscirne vittorioso.
Signori Baroni,
dice piacevolmente ai circostanti Cavalieri, che avevano di già l'arme nuda alla mano; "la fortuna nel chiamarci in Sicilia, ne sembra che non ci abbia voluto invitare a convito di nozze; ormai le tavole sono poste, e fa di mestieri mostrare buon viso a tutto quello che ci verrà apprestato. Se noi dubitassimo punto di voi, faremmo ciò che hanno avuto in costume di praticare i Capitani di tutti i tempi, ingegnandoci con le orazioni inanimirvi alla vicina battaglia; ma troppe volte abbiamo combattuto i medesimi fatti di arme, e troppo spesso ci siamo veduti negli stessi pericoli, perchè ci sia concesso di credere che una nostra parola valga a darvi quella sicurezza che solo avrà fine col palpito dei nostri cuori.
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