Alla mattina Rogiero, tolto commiato dal suo ospite, che assai doloroso lo vide partire, proseguiva la via.
CAPITOLO DECIMOQUINTO.
LA FINE DEL TRADITORE.
Avea l'aurora già vermiglia e ranciaScolorite le stelle, allor che lunge
Scoprimmo, e non ben chiari, i monti in prima,
Poscia i liti d'Italia. Italia! AcateGridò primieramente; Italia, Italia,
Da ciascun legno rintonando allegri,
Tutti la salutammo.
Eneide.
Ecco le Alpi. – Quanti sono i secoli che ne incoronano la cima? – Il tempo li confonde nei suoi misteri. – Di quelli che i popoli conoscono, alcuni appaiono luminosi quanto la gemma sul diadema del potente, – altri foschi di luce sanguigna, come l'ultimo raggio del sole che muore, – altri tenebrosi di terribile oscurità. –
– Da quelle rupi abbrustolate dal fulmine l'Aquila romana guardò le nazioni della terra, e spiccando il volo al corso fatale precorse con lo spavento di provincia in provincia, di parte di mondo in parte di mondo, la vittoria delle legioni immortali. – Gli alti destini di Annibale le apportarono la dolorosa conoscenza, che poteva essere vinta; pure, finchè le virtù patrie le composero il nido, stette coll'Alpi terrore dei popoli. – Quando consumato dagli anni e dai vizii l'Impero dei Cesari giacque sotto il peso della propria grandezza, abbandonò l'Aquila superba quel cadavere di gloria, lasciando allo stormo dei corvi settentrionali cibarsi di morte reliquie. – Venne Carlo Magno, ma l'Aquila era fuggita, il nido freddo, ed ei lo disperse. – Il genio di un fiero Capitano erra fremendo per quegli spaventosi dirupi.
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