– No, – perchè il desiderio che il mondo divenga deserto è peccato.
CAPITOLO DECIMOSESTO.
IL CAVALIERE DEL FULMINE.
L'una zuffa e poi l'altra io vi vo' dire,
Che in due luoghi ad un tempo si travaglia;
Lo strepito è si grande del ferire,
Lo spezzar della piastra e della maglia,
Che fa chi guarda intorno sbigottire.
Orlando Innamorato.
Forse fu il premio della costanza: – Carlo di Angiò afferra la riva: allorquando il suo coraggio stette al cimento della morte, se qualcheduno gli avesse posto la mano sul cuore, non avrebbe sentito nè accelerare nè diminuire i suoi palpiti; – alloraquando scomparsa tutta speranza di esterni sussidii l'anima fu ridotta all'alternativa di abbandonarsi vinta, o di sopravvivere, spiegò tal vigore, di cui ella non si sarebbe reputata capace se la occasione non fosse venuta. – Carlo afferra la sponda, perocchè la galera forse di un miglio lontano da terra s'era sommersa tra Capo Linaro e Civitavecchia; ma travagliato, indebolito, in guisa che parve la vita essergli soltanto bastata per non morire nel mare. Il mattino vide quello uomo ambizioso, destinato a rovesciare il trono del gran Federigo, steso senza moto su la sabbia, irrigidito per tutte le membra, stillante acqua dai capelli, e dalle vesti; – il più vile lo avrebbe potuto impunemente oltraggiare, il più codardo spegnere; – un fiato, per quanto leggerissimo, estinguere quella scintilla vitale, che di per sè stessa guizzava incerta intorno alla sede delle sensazioni. Il sole, distillandogli per le vene il sottile suo fuoco, gli intepidiva il sangue, e richiamava i suoi spiriti all'usato ufficio; si levava a sedere come smemorato, e gittava gli occhi smarriti sul cumulo delle acque.
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