L'esercito già s'era diviso pe' quartieri apprestatigli dalla provvidenza romana. Carlo, dopo la cena, sentendosi stanco aspettava il cenno di Clemente per andare a prendere riposo, ma non osava domandarglielo; Clemente non voleva che stanziasse nel suo palazzo, ma non osava dirglielo; pure alla fine considerando che a lui toccava parlare, si levò da tavola, e favellò: "Conte, noi vogliamo che tu sappi, nessuno cattolico, per quanto d'arme e di tesoro potente, avere mai albergato fin qui nel nostro palazzo di Laterano, e questo teniamo in segno di rispetto meno per noi, che siamo il servo dei servi, che per l'Altissimo di cui facciamo le veci. Quello che è stato con tanta sapienza dai nostri predecessori stabilito, e da tanti Imperatori seguitato, noi non intendiamo revocare; però escine senza mormorare, dilettissimo figlio; di bene altri palazzi abbonda la città, nè per bellezza, nè per ricchezza punto inferiori a questo nostro; e partendotene persuaditi che noi non vogliamo già farti vergogna, ma sì provvedere alla fama di figliuolo ossequente a Santa Madre Chiesa, che altissima suona di te per l'universo."
Carlo, sebbene non fosse punto disposto a sopportare quelle grandigie papali, come dimostrò qualche anno dopo con la superba risposta a Niccola III degli Orsini, pure adesso con lieto viso si partì dal Laterano, e si condusse ad albergare altrove. Il Conte di Provenza, sì come savio, intendeva, che adattarsi una volta al piacere altrui, per poi fare sempre a modo proprio, non è cosa che deva punto guastare.
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