I miei padri non si sono mai resi.
Questo vuol dire ch'essi furono più valorosi di te, non già che tu non debba cedere al più forte: chiamati vinto.
Uccidimi se hai vinto, ma non isperare che io te lo dica.
Allora il Cavaliere vittorioso, voltate le spalle, si mette a fuggire: il Monforte, sorpreso del caso, si guarda attorno, e si vede su l'orlo della fossa: – tu non lo avresti fatto, – gli rimprovera la voce della coscienza: disperato di vincere la prova, torna a combattere per morire onoratamente.
Il Cavaliere del fulmine, con le mani sopra il pomo della spada fitta nel terreno, stava immobile a considerare il mortale duello; poteva, se avesse voluto, con un suo colpo finirlo, ma lieto del valore del compagni, gliene lasciava tutta la gloria.
Il Monforte cade abbattuto, il suo nemico gli calca il seno col piede, e alzata con ambedue le mani la spada di punta su la visiera smagliata, gli parla: "Cavaliere, troppo mi graverebbe ucciderti, perchè, sebbene orgoglioso quanto Lucifero, io ti provai valente nell'armi, e quello che potevi fare hai fatto per difenderti da me: chiamati vinto, salva la vita; e rammentati che se Italia dorme, non meritava di essere effigiata capovolta nel tuo scudo; ella dorme, ma se si sveglia, quale schiatta umana la vincerà?"
La vittoria ti ha dato il diritto di uccidermi, uccidimi; ma risparmiati in nome di Dio questi tuoi sanguinosi rimproveri: io ti avrei di già trucidato!
– rispose il Monforte a mala pena respirando per la oppressione che gli davano le angoscie del corpo e dell'anima.
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