intera; in somma era uno schifoso spettacolo dell'umana cupidigia: molti considerando che i loro sforzi sarebbero tornati vani per acquistare i danari già sparsi, si affollavano al Cavaliere del fulmine, che gittò la seconda coppa, e la terza, e la quarta, tanto che giunse a distrigarsi a salvamento fuori di quella ciurmaglia.
L'onorato Lebrun, che quantunque il giorno innanzi offeso dal Monforte, aborriva ogni vendetta, che non fosse generosa, fu che salvò la vita al male arrivato Conte. Carlo, più volte a grande istanza da lui supplicato, ordinò che sollevasse la lancia, cosa che il Contestabile fece molto volentieri; e quindi affannoso andò co' sergenti a soccorrere il Monforte, che privo di sentimento trovarono steso per terra, e con modi soavi trasportarono alla sua abitazione.
I Cavalieri primo venuto, e del fulmine, comecchè cavalcassero a gran fretta, furono ben tosto raggiunti dai loro sei compagni, i quali, rimasti prigioni a prima giunta, non trovarono per l'esito della battaglia impedimento all'andare. Così riuniti, senza profferire parola, s'internarono nel più profondo di una vicina foresta; avevano forse mille passi percorso, allorquando si abbatterono in circa dugento uomini di arme, che da lontano con le daghe e con le partigiane gli salutarono. Il Cavaliere del fulmine venuto loro dappresso si calò la visiera, e disse: – "Compagni, abbiamo vinto."
CAPITOLO DECIMOSETTIMO.
IL RIMORSO.
Perchè nessuna notte ha seguitato il giorno, nè nessun giorno la notte, che tra il vagito dei nascenti non siasi inteso il pianto della morte, e dei funerali.
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