Tal che il cielo ne frema, e la natura.
Sopra un teschio aspramente percotendo, –
Parla, – gridava un Cavaliere irato,
Et ecco un serpe, che dal teschio uscendoSi mette a zufolare in mezzo al prato;
Ma con la mazza il Barone insistendo, –
Parla, – aggiungeva, – spirito dannato; –
Dalle nude mascelle un suono a luiVenne, che disse: – io son de' maggior tui.
Figlio a Gualfredo il vecchio, ebbi un fratelloFamoso in cacce, e in armeggiar prestante;
Forte del corpo a meraviglia, e bello,
Nel disio d'una vaga delirante,
Che tratta fantolina al mio castelloDa un vassallo venia tutta tremante;
E il padre mio, come il consiglia amore,
Sposa la volle al suo figliuol maggiore. –
– M'ami? – mi disse la proterva: – in senoL'alma ti ferve, o– se' nei detti un forte?
Di tal liquore questo vaso è pieno,
Che in lieta può tornar la nostra sorte. –
Ch'è questo che mi dai, donna? – È veleno:
Esultiamo nel ben della lor morte... –
Fede sopra l'orribile convitoDi sposa ci giurammo e di marito.
A scellerato giubbilo commossa,
Me parricida e cieco di spavento,
Sopra il desco, ogni face in pria rimossa,
Ricercava di osceno abbracciamento....
Arde la carne, e sol rimangon l'ossa,
Treman le volte al fiero giuramento....
Fatta or dimonio, in quell'amplesso eternoL'anima mi contrista nell'inferno.
Pregando il viator, che tenga al pianoLa incominciata via, nè salga al monte,
Il deserto castello da lontano,
Segnandosi devoto in su la fronte,
Accenna il buon vassallo con la mano,
E alla memoria mia rinnuova l'onte;
Nè un riposo è concesso alla mia testa,
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Cavaliere Barone Gualfredo
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