Non anche si ristoravano dello affanno sofferto, che videro i nostri Conti entrare nella stanza uno scudiere del Re, il quale per parte del suo signore intimava che tosto si rendessero a Corte.
Sapete voi la cagione della chiamata, scudiere?
– domandava il Cerra con mal celata impazienza.
La mia commessione sta nello intimarvi di andar súbito in Corte.
– E dette queste parole, lo scudiere fece un inchino, e si partì.
Io non vi andrò,
parlava il conte Anselmo "no certo; se vogliono imprigionarmi, mi prendano; ma che vada io stesso a pormi nella tagliola, non conosco legge divina nè umana che lo comandi: su, levatevi, Conte; non parmi tempo di meditare questo, – fuggiamo."
E sempre fuggire, e sempre fuggire, nè ferire mai!
rispondeva il Caserta "vattene, se vuoi; io aborro il consiglio della paura; non passò anche un'ora che mi apparecchiava a partirmi da questa vita senza vendetta, adesso avanti di morire posso sperare di vedere il sangue del mio nemico; – è mancata la vendetta della mente, quella della mano non può mancare: non sei anche tu armato di pugnale? che temi? La morte salda tutti i conti:" e preso Anselmo pel braccio aggiungeva: "Vieni."
Ecco, Messer Contestabile, ecco, Messer Camarlingo,
esclamava Manfredi appena vide i Conti di Caserta, e della Cerra, che entravano nella sua camera, "la vantata fedeltà dei miei Baroni: quando io mi travaglio dì e notte per preservarli dalla invasione straniera, quando io mi apparecchio a versare il mio sangue sul campo in loro tutela, invidiosi perfino che io chiuda con la gloria una vita consumata dalle fatiche, congiurano a spengermi col pugnale del sicario, offrono al mio nemico il mio trono, – perfidi!
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