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      Queste considerazioni faceva il Conte di Provenza, e quasi disperava: poteva avventurare l'assalto, e lo avrebbe tentato; tuttavolta troppo gli comparivano forti quelle muraglie, e troppo cautamente guardate, per correre il rischio con qualche speranza di buon successo: se ne fosse, come sembrava, ributtato, avrebbe diminuito l'ardore dei suoi Francesi, – soliti a ingigantirsi nella prospera fortuna, a sgomentarsi oltre il dovere nell'avversa, – perduta la fama d'invincibile che sì l'aiutava. Dalla scemata reputazione vedeva scaturire una serie di mali, di cui il meno grave consisteva nel rinunziare affatto alla impresa; – tante durate fatiche, tante concepite aspettative, i lunghi desiderii, i disegni, commettere all'esito incerto di una battaglia, dove nulla gli avrebbe giovato la esperienza della milizia, nulla i buoni cavalieri armati da capo a piedi con sì grave dispendio, non gli sembrava, nè era prudente: conosceva inoltre benissimo che quei molti Romani, che gli si erano aggiunti, non venivano mica per aiutarlo; solo a partecipare delle spoglie conquistate dal valore dei suoi; e che al primo disastro se ne sarebbero andati come erano venuti, spargendo da per tutto per onestare la fuga, la nuova della sua disfatta, con mentito racconto magnificandola. D'altronde la inerzia non gli nuoceva meno della sconfitta; scarseggiavano i cibi, le casse mostravano il fondo, e i Romani, come abbiamo detto, lo accompagnavano per guadagnare, non per rimettere; se il caso non gli apriva qualche via di salute, ei si teneva perduto.


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La battaglia di Benevento
Storia del secolo XIII
di Francesco Domenico Guerrazzi
Le Monnier Firenze
1852 pagine 699

   





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