Allora cominciava un miserabile eccidio: le spade nemiche gl'incalzavano con ardore bestiale; quanti incontrarono resistenti, o cadenti, trucidarono; la età non salvava; il sesso incitava alla libidine, non alla pietà; dopo gli ultimi oltraggi, quelle sciagurate donne tagliavano. A noi non concede la mente di narrare lo sperpero commesso in quella notte dalle armi francesi, comecchè sappiamo che la più parte delle storie degli uomini sia composta di questi fatti; basti sapere che tra i morti per ferro e tra i morti per fuoco, sommarono le anime a meglio di diecimila.
Manfredi, travolto nella fuga dei suoi, conoscendo la voce della paura essere diventata più potente della sua, desideroso morire di ferita nel petto, fa un ultimo sforzo, e volta il cavallo. Avrebbe incontrato quello che andava cercando, perchè distinto dall'Aquila d'argento che portava per cimiero, contro di essa si sarieno rivolte le spade nemiche, se una nuova gente, da lui mai più veduta, sboccando dalla via che mena alla porta dell'Abruzzo, non lo avesse circondato gridando: – Svevia! Svevia! – Un Cavaliere gigantesco che teneva su l'elmo una Lupa gli si accostava, spingendo il cavallo a slascio traverso la pressa: e curvatosi dall'arcione, gli diceva in fretta: "Messer lo Re, la terra è presa, il Provenzale soverchia: se fossimo giunti avanti, vi avremmo fatto vincere; adesso non possiamo che salvarvi: – voi non ci conoscete, ma noi siamo vostri amici."
– Dunque non è anche l'ora, – pensò Manfredi; poi rispose al Cavaliere: "Gran mercè, Barone; da che siete venuto, vi accetto; a Benevento potremo sospendere anche una volta la fortuna di Carlo.
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