Ghino si rimaneva immobile, atteggiato in cotale mossa guerriera, non ostentata per arte, ma da lunga consuetudine propria delle sue membra. Manfredi, soddisfatto il desio di guardarlo, aggiunse commosso: "O nobil sangue, come avvilito! Anima grande, a qual punto ridotta! In qual modo avete sofferta la vita? in qual modo l'avete guardata dalla morte? – dalla infamia?"
O signor mio, io ho scorso questa terra, che delle antiche glorie si fa manto alle vergogne moderne, e l'ho veduta piena di delitti; il mio braccio ha vegliato per la innocenza, e la gente mi ha benedetto; – e poichè dura eterna la guerra della ingiustizia contro la debolezza, io non ho posato che pochi momenti.
E in quei momenti?
Ghino abbassò gli sguardi, ed esitando aggiunse: "La gente dice che ritorna l'antica comunione delle cose; – l'uomo ha diritto all'esistenza, – io ho chiesto un pane, e l'ho tolto a cui me lo ha negato."
Ma perchè non veniste alla mia Corte? Qual è il Cavaliere, che sotto l'ale dell'Aquila di Manfredi non abbia trovato ricovero contro il flagello della fortuna? Avete temuto che noi ci mostrassimo meno cortesi con voi che con gli altri? Ghino, ci avete fatto torto.
No, Monsignore, mai ho dubitato della vostra cortesia, sì bene molto ho temuto che in me fosse petulanza esperimentarla. Suona di Ghino diversa la voce: – chi mi ha ridotto in tale stato, per onestare il misfatto agli occhi della gente, e forse anche per superare il grido della propria coscienza, schiamazza a piena bocca ch'io sono un fuggito dal capestro, un periglioso ladrone; – così veramente non dice il salvato dalla ferocia del Barone, non così le difese donzelle, non così i castelli tutelati dalle libidini del prepotente vicino; nondimeno il male urla più forte del bene, e la mia condizione parla contro di me.
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