Senza prendere riposo, armato come era, si condusse alla Chiesa che serba le sacre reliquie di Santo Menna il Solitario, e rese grazie all'Altissimo; nell'uscire del tempio incontrò un capitano che aveva lasciato alla porta, il quale gli si accostò affannoso, come chi si è travagliato nel correre, e gli disse: "Messer lo re, gente con l'insegna bianca è venuta alla porta; dovrò introdurla dentro io? Ella demanda parlarvi."
Sì, introducetela tosto, sire La-Croix; non aspetti l'amico alla porta dell'amico; ci troverete al palazzo dei Sindaci.
Carlo per questa volta s'ingannava; non erano amici coloro ch'egli accolse nella sala del palazzo della città con maniere semplici e dimesse, affinchè prendessero buona opinione di lui; per questa volta seminò su la sabbia; non ne rimasero punto edificati; anzi un Cavaliere, che pareva il principale dell'ambasciata, con soldatesca ruvidezza gli domandò: "Siete voi Carlo Conte di Provenza?"
L'alterezza del Conte rimase trafitta da così aspra interrogazione, onde, riassumendo quel superbo contegno che gli era naturale, rispose: "Siamo."
Il Cavaliere senza inchinarsi soggiunse: "Or via, sire Conte, la Serenità di Manfredi I, Re di Sicilia, mio signore, mi manda a voi ambasciatore, affinchè, se vi piace, consentiate una tregua di un mese a patti, e..."
Quale è il vostro nome, bel Cavaliere?
interruppe Carlo.
Giordano dei Marchesi di Lancia.
Ebbene, bel Marchese di Lancia, tornate presto, e riferite al Soldano di Lucera, che noi non vogliamo con lui nè tregua nè pace, e che noi tra poche ore metteremo lui nell'Inferno, od egli metterà noi in Paradiso.
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