VI.
Don Mario Massimi.
Nella notte medesima senza porre tempo fra mezzo mi posi in traccia di don Mario un po' per allargarmi il cuore, ma più assai per soddisfare sollecitamente alla volontà del moribondo: che vi dirò? Quelle paurose parole di maledizione mi erano come esca accesa dentro le orecchie dell'asino. - Don Mario era della natura della lumaca, che dove passa lascia traccia; sicchè in breve mi venne fatto trovarlo. Verso l'una ora di notte entrai nella osteria dell'Angiolo, ove aveva preso usanza meglio che nelle altre taverne. I fiati, il fumo e l'esalazioni delle candele di sego di così grave nebbia empivano il luogo, che a me per buono spazio di tempo non riuscì distinguere le facce dei raccolti intorno alle tavole per bere.
Però, anche senza cotesta infernale caligine, come mai avrei potuto raffigurare don Mario? Ficcai gli occhi nel viso ad un cotale, che udii chiamare il Marchese; ed, ahimè! come il bellissimo don Mario era diventato sozzo aspetto! La faccia aveva vermiglia color del rame, il naso gli protendeva fuori della fronte acceso, e pieno di bernoccoli paonazzi, quasi altrettanti testimoni prodotti dalla buona Coscienza al tribunale della Temperanza per sostenere l'accusa; la pelle gli pendeva giù floscia dalle mascelle, e vergata di rughe premature. Gittata là sopra una pancaccia la veste plebea, stavasene in camicia con una manica attorta su fino alla spalla, e l'altra abbottonata intorno al polso: i capelli, che una volta egli ebbe belli o ricciuti, ecco adesso scarmigliati come bioccoli della lana di capra, e di terra sordidi e di paglia.
| |
Mario Massimi Mario Mario Angiolo Mario Marchese Mario Coscienza Temperanza
|