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      In odio agli emuli Lazaro tutto quello che da loro emanava distrusse; perfino lo statuto penale stesso nella massima parte da Bartolomeo Forteguerra in codesti tempi lodato, cui fece vie più desiderare il nuovo sostituito e che all'ultimo venne richiamato in vigore con plauso di quelli che lo composero: infine, perchè cotesta antica soperchieria in tutto e per tutto alle nuove e alle nuovissime rassomigliasse, con solenni apparecchi si resero grazie a Dio, quasi per renderlo complice del reato. Dio pur troppo alle miserie nostre non attende o non le cura; chè, se così non fosse, e dove meglio potrebbe adoperare i suoi fulmini quanto a incenerire colui che, tradendo la fede del popolo, se ne fa
      con violenza tiranno? Il vendicatore fu Antonio Sbarra nipote ai Forteguerra: costui per condurre a fine il disegno si fece famigliare di Lazaro, gli entrò in grazia, ne sposò la sorella, e covata la vendetta sette anni, certa sera mentre Lazaro si stava senza sospetto di lui a suono di pugnalate lo ammazzò. Nè a lui nè alla patria giovò la Nemesi, ch'egli n'ebbe mozzo il capo, e quella non ricuperò la libertà; i cittadini bollirono un cotal po', ma non diedero di fuori; della quale ventura e della pestilenza che allora infieriva approfittandosi, i Guinigi riserrarono gli ordini oligarchici riducendo il reggimento in dodici del consiglio con balìa suprema sopra tutte le cose, da durare finchè non cessava il contagio. Il contagio cessò, ma costoro non ismisero la balìa: allora i cittadini ripigliarono a brontolare e accennavano a peggio; li prevenne Paolo Guinigi, che sostenuto dai soldati mercenari si costituisce tiranno; cupido e avaro lo dice la storia e a tutta prova codardo; eccetto questi meriti, altri non gliene sappiamo, ma l'avere accolto Gregorio XII con gentilezza ed undici cardinali gli fruttò la rosa d'oro, dono solenne dei sommi pontefici largito ai sostegni della Chiesa: di viltà in viltà, dopo avere patteggiato co' ladroni del suo paese, giunse allo estremo di tutto, che fu negoziare la vendita di Lucca ai Fiorentini; e poichè tanta infamia non seppero tollerare, i Lucchesi, accontandosi insieme, gli fanno impeto addosso e presolo lo giudicano: dichiarava lo statuto che il magistrato reo di avere manomessa la libertà della patria pagasse del capo; gli risparmiarono pietosi troppo il patibolo, sì bene lo consegnarono al conte Francesco Sforza, che lo mandò a Milano, donde trasportato a Pavia, quivi miseramente morì prigione.


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Vita di Francesco Burlamacchi
di Francesco Domenico Guerrazzi
Casa Editrice Italiana Milano
1868 pagine 355

   





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