Dopo molto travagliarsi, entrambi caddero in mano alla Inquisizione; il Negrino lasciò morirsi di fame in prigione, e parve non il più animoso, bensì il meno doloroso partito; all'opposto il Pasquali, dopo otto mesi di prigionia a Cosenza, trasportarono a Roma: molto patì e tutto sostenne con maravigliosa costanza, come si desume dalle lettere pietosissime spedite da lui alle chiese perseguitate della Calabria ed all'afflitta sposa; in una di queste lettere si legge il suo viaggio da Cosenza a Napoli; è pregio della opera riferirla: "Dei nostri compagni quei due che persuasero a ritrattarsi non hanno patito punto meno di noi, e Dio sa che cosa gli aspetta a Roma. L'onesto Spagnuolo soprastante alla nostra scorta ci volle far comprare la catena; a questo fine mi strinse così crudelmente i polsi che le carni ne rimasero stracciate; pur troppo mi accorsi che per riscattarmi dallo spasimo egli era mestieri dargli quanto mi trovava a possedere di pecunia; poca cosa invero, due ducati, appena bastevoli alle prime necessità; pure glieli diedi. Durante la notte alle bestie somministravano paglia per corcarsi, a noi no, ci toccava giacersi per terra; a Napoli ci hanno chiusi dentro una carcere umida, fetente per la lunga dimora di luridi prigionieri."
Il fratello del Pasquali accorso per salvare il povero fratello, tale gli apparve quando prima lo vide al cospetto dello inquisitore: "orribile vista! egli scrive; nudi il capo, le braccia e le mani stracciate dai rigidi legami come di uomo che venga tratto alla forca; tanta pietà mi vinse che, andandogli incontro per abbracciarlo, mi vennero meno le forze: Fratelmo, egli mi disse, se cristiano sei, perchè ti lasci abbattere così dalla sventura?
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