Fu allora che il Cesari, il Puoti, il Perticari, il Giordani e tanti altri predicarono la crociata contro i neologismi forastieri in nome dell'aureo Trecento. Si tornò all'antico, accettando ad occhi chiusi il buono ed il cattivo di una lingua ancora allo stato di formazione, e chi seppe cavare dai Fatti di Enea o dai Fioretti di San Francesco i termini più eterocliti ed antiquati, colui scrisse meglio. Reazione che ebbe la sua utilità, come quella che pulì un poco la lingua e mantenne un certo spirito di italianità nelle lettere, appunto quanto ogni speranza di italianità pareva perduta; ma reazione sempre, quindi cieca, intollerante, meticolosa. Il pretonzolo del Leopardi senza dubbio insegnò questo scrupoloso purismo ai suoi allievi, propose i modelli di moda all'imitazione sconsigliata, e la cantica di quel Giacomo, che scrisse poi l'italiano come nessuno seppe scrivere finora, ribocca di parolacce viete, muffite, quasi umoristiche. Per chi vorrà gettare gli occhi sulla cantica non c'è bisogno di esempi; ogni pagina, presa a caso, dice più che qui non si possa dire. Nella stessa ortografia c'è una affettazione di arcaismo che non si trova più nei lavori successivi, anche giovanili, del poeta.
E il poema che cosa è in fondo? Una imitazione fredda e servile un poco del Poema divino, un poco dei Trionfi del Petrarca. Cominciamo a trovarci nella solita landa, come Dante si trovò nella selva selvaggia. Il poeta sovrano ci dice:
Io non so ben ridir come v'entrai,
Tant'era pien di sonno in su quel punto;
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Brani di vita
di Olindo Guerrini (Lorenzo Stecchetti)
Zanichelli Bologna 1908
pagine 487 |
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