Di che essendo conscio, ti possono e debbono poco perturbare le imputazione e romori falsi; perché è certo vana e ridicula la querela di coloro che aggravano e' lamenti loro per dire di essere imputati a torto ed essere innocenti, come se più si debba dolere chi patisce a torto che chi patisce con ragione.
Confesso che in uno certo modo manco debbe lamentarsi della pena chi cognosce meritarla, e chi non può dire essergli fatto ingiustizia, e che ricognoscendo se medesimo e la conscienzia sua è necessitato a dire: io merito questo e peggio; ma quanto alla causa della pena colui che è innocente non può sentire dolore o dispiacere alcuno, e da altro canto chi è in delitto ha sanza comparazione maggiore tormento, maggiore cruciato da se medesimo e dalla sua conscienzia che non è lo alleggerimento che gli dà el cognoscere che non si può lamentare della pena; perché quelle sono le punture, quegli sono gli aculei, quello è el vermine che rode le viscere, quella è la fiamma che non lascia riposare, che nasce da se medesimo, che lo costrigne a confessare che da sé procede, dalle azioni ed opere sue, tutto el male che lui sente. Questa è quella ruota di Sisifo che non si ferma, non si riposa mai; questa bene in continua afflizione, in continuo fuoco chi ha solo el peccato sanza essere punito; quanto più chi ha l'uno e l'altro; anzi la pena estrinseca ed accidentale è piccola a comparazione di quella che continuamente dà el sentirsi sempre vessato e tormentato dalla conscienzia sua: non si può mandarla fuora sanza vergogna e sanza dispiacere, e quanto più si tiene occulta e più drento, tanto pá tribola, più rode, più arde.
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Sisifo
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