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      In Firenze si dubitava molto della mente del re, ma non vedendo con quali forze o con quale speranza gli potessino resistere, avevano eletto per manco pericoloso il riceverlo nella città, sperando pure d'avere in qualche modo a placarlo; e nondimeno, per essere proveduti a ogni caso, avevano ordinato che molti cittadini si empiessino le case occultamente d'uomini del dominio fiorentino, e che i condottieri i quali militavano agli stipendi della republica entrassino, dissimulando la cagione, con molti de' loro soldati in Firenze, e che ciascuno nella città e ne' luoghi circostanti stesse attento per pigliare l'armi al suono della campana maggiore del publico palagio. Entrò dipoi il re con l'esercito, con grandissima pompa e apparato, fatto con sommo studio e magnificenza cosí dalla sua corte come dalla città; e entrò, in segno di vittoria, armato egli e il suo cavallo, con la lancia in sulla coscia: dove si ristrinse subito la pratica dell'accordo, ma con molte difficoltà. Perché, oltre al favore immoderato prestato da alcuni de' suoi a Piero de' Medici e le dimande intollerabili che si faceano di danari, Carlo scopertamente il dominio di Firenze dimandava, allegando che, per esservi entrato in quel modo armato, l'aveva, secondo gli ordini militari del regno di Francia, legittimamente guadagnato; dalla quale domanda benché finalmente si partisse, voleva nondimeno lasciare in Firenze certi imbasciadori di roba lunga, (cosí chiamano in Francia i dottori e le persone togate), con tale autorità che, secondo gli instituti franzesi, arebbe potuto pretendere essersegli attribuita in perpetuo non piccola giurisdizione; e pel contrario i fiorentini erano ostinatissimi a conservare intera, non ostante qualunque pericolo, la propria libertà: donde, trattando insieme con opinioni tanto diverse, si accendevano continuamente gli animi di ciascuna delle parti.


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Storia d'Italia
di Francesco Guicciardini
pagine 2094

   





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