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      Non restare a' pisani piú cosa alcuna dove potesse distendersi piú la empietà e appetito insaziabile de' fiorentini, ed essere impossibile sopportare piú tante miserie; e perciò avere tutti unitamente determinato d'abbandonare prima la patria, d'abbandonare prima la vita, che ritornare sotto sí iniquo, sotto sí empio dominio. Pregare il re con le lacrime, le quali egli s'immaginasse essere lacrime abbondantissime di tutto il popolo pisano prostrato miserabilmente innanzi a' suoi piedi, che si ricordasse con quanta pietà e giustizia avesse restituita a' pisani la libertà usurpata ingiustissimamente; che, come costante e magnanimo principe, conservasse il beneficio fatto loro, eleggendo piú tosto d'avere il nome di padre e di liberatore di quella città che, rimettendogli in tanto pestifera servitú, diventare ministro della rapacità e della immanità de' fiorentini. Alle quali accusazioni con non minore veemenza rispose Francesco Soderini vescovo di Volterra, il quale fu poi cardinale, uno degli oratori de' fiorentini, dimostrando il titolo della sua republica essere giustissimo, perché avevano, insino nell'anno mille quattrocento quattro, comperato Pisa da Gabriel Maria Visconte legittimo signore; dal quale non prima stati messi in possessione, i pisani avernegli violentemente spogliati ; e però essere stato necessario cercare di ricuperarla con lunga guerra, della quale non era stato manco felice il fine che fusse stata giusta la cagione, né manco gloriosa la pietà de' fiorentini che la vittoria: conciossiaché, avendo avuta occasione di lasciare morire per se stessi i pisani consumati dalla fame, avessino, per rendere loro gli spiriti ridotti all'ultime estremità, nell'entrare con l'esercito in Pisa, condotto seco maggiore quantità di vettovaglia che d'armi.


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Storia d'Italia
di Francesco Guicciardini
pagine 2094

   





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