Da altra parte, molti considerando piú sanamente lo stato delle cose, e quanto fusse brutto e calamitoso a tutta Italia il ridursi interamente sotto la servitú de' forestieri, sentivano con dispiacere incredibile che una tanta città, sedia sí inveterata di libertà, splendore per tutto il mondo del nome italiano, cadesse in tanto esterminio; onde non rimaneva piú freno alcuno al furore degli oltramontani, e si spegneva il piú glorioso membro, e quel che piú che alcuno altro conservava la fama e l'estimazione comune.
Ma sopra a tutti gli altri era molesta tanta declinazione al pontefice, sospettoso della potenza del re de' romani e del re di Francia, e desideroso che l'essere implicati in altre faccende gli rimovesse da' pensieri di opprimere lui. Per la quale cagione, deliberando, benché occultamente, di sostentare quanto poteva che piú oltre non procedessino i mali di quella republica, accettò le lettere scrittegli in nome del doge di Vinegia, per le quali lo pregava con grandissima sommissione che si degnasse ammettere sei imbasciadori eletti de' principali del senato, per ricercarlo supplichevolmente del perdono e della assoluzione. Lette le lettere e proposta la dimanda in concistoro, allegando il costume antico della Chiesa di non si mostrare duro a coloro che, avendo penitenza degli errori commessi, dimandano venia, consentí d'ammettergli: repugnando molto gli oratori di Cesare e del re di Francia, e riducendogli in memoria che per la lega di Cambrai era espressamente obligato a perseguitargli, con l'armi temporali e spirituali, insino a tanto che ciascuno de' confederati avesse recuperato quello che se gli apparteneva: a' quali rispondeva avere consentito di ammettergli con intenzione di non concedere l'assoluzione se prima Cesare, che solo non avea recuperato il tutto, non conseguitava le cose che se gli appartenevano.
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