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      Eranvi a guardia settecento fanti; i quali, pensando fusse battaglia ordinata né essendo sufficienti per il numero a potere resistere quando fussino assaltati da piú luoghi, fatta leggiera difesa cominciorono a ritirarsi, per deliberazione fatta, secondo si credé, prima tra loro: ma lo feciono tanto disordinatamente che gli inimici che erano già cominciati a entrare dentro, scaramucciando con loro e seguitandogli per la costa, entrorno seco mescolati negli altri due procinti e dipoi insino nel castello della fortezza; dove essendo ammazzata la maggiore parte di loro, gli altri, ritiratisi nella torre e volendo arrendersi salve le persone, non erano accettati da' tedeschi: i quali dettono alla fine fuoco al mastio della torre, in modo che di settecento fanti con cinque conestabili, e principale di tutti Martino dal Borgo a San Sepolcro di Toscana, se ne salvorono pochissimi; avendo ciascuno minore compassione della loro calamità per la viltà che avevano usata. Né si dimostrò minore la crudeltà tedesca contro agli edifici e alle mura, perché non solo, per non avere gente da guardarla, rovinorono la fortezza di Monselice ma abbruciorono la terra. Dopo il qual dí non feceno piú questi eserciti cosa alcuna importante, eccetto che una correria di quattrocento lancie franzesi insino in su le porte di Padova.
      Partí in questo tempo medesimo dal campo il duca di Ferrara e con lui Ciattiglione, mandato da Ciamonte con dugento cinquanta lancie per la custodia di Ferrara, dove era non piccola sospezione per la vicinità delle genti del pontefice: e nondimeno i tedeschi stimolavano Ciamonte che, secondo che prima si era trattato tra loro, andasse a campo a Trevigi, dimostrando essere di piccola importanza le cose fatte con tanta spesa se non si espugnava quella città, perché di potere spugnare Padova non s'avea speranza alcuna.


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Storia d'Italia
di Francesco Guicciardini
pagine 2094

   





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