Venne finalmente a Mantova, accompagnato da don Petro d'Urrea, il quale per il re d'Aragona risedeva ordinariamente appresso a Cesare ove pochi dí poi sopravenne il vescovo di Parigi; persuadendosi il re di Francia (il quale, per essere piú vicino alle pratiche della pace e a provedimenti della guerra, era venuto a Lione) che medesimamente il pontefice dovesse mandarvi. Il quale, da altra parte, faceva instanza che Gurgense andasse a lui; mosso non tanto perché gli paresse questo essere piú secondo la degnità pontificale quanto perché sperava, e coll'onorarlo e col caricarlo di promesse, e con l'efficacia e autorità della presenza, averlo a indurre nella sua volontà, alienissima piú che mai dalla concordia e dalla pace: il che per persuadergli piú facilmente procurò che andasse a lui Ieronimo Vich valenziano, oratore del re cattolico appresso a sé. Non negava Gurgense di volere andare al pontefice; ma diceva, essere richiesto di fare prima quel che era conveniente fare dipoi; affermando che piú facilmente si rimoverebbono le difficoltà se si trattasse prima a Mantova, con intenzione di andare poi al pontefice con le cose digerite e quasi conchiuse. Astrignerlo a questo medesimo non meno la necessità che il rispetto della facilità: perché come era egli conveniente lasciare solo il vescovo di Parigi, mandato dal re di Francia a Mantova per l'instanza fatta da Cesare? con che speranza potersi trattare da lui le cose del suo re? come conveniente richiederlo che andasse insieme con lui al pontefice? perché né secondo la commissione né secondo la degnità del re poteva andare in casa dello inimico, se prima non fussino composte, o quasi composte, le differenze loro.
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