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      Procedeva in questo modo il pontefice piú per fuggire il pericolo presente che perché avesse veramente disposto del tutto l'animo alla pace, combattendo insieme nel petto suo la paura la pertinacia l'odio e lo sdegno.
      Nel quale tempo medesimo sopravenne un altro accidente che gli raddoppiò il dolore. Accusavano appresso a lui molti il cardinale di Pavia, alcuni di infedeltà altri di timidità altri di imprudenza: il quale, per scusarsi da se stesso venuto a Ravenna, mandò, come prima arrivò, a significargli la sua venuta e a dimandargli l'ora della udienza; della qual cosa il pontefice, che l'amava sommamente, molto rallegratosi, rispose che andasse a desinare seco. Dove andando, accompagnato da Guido Vaina e dalla guardia de' suoi cavalli, il duca di Urbino, per l'antica inimicizia che aveva con lui, e acceso dallo sdegno che per colpa sua (cosí diceva) fusse proceduta la ribellione di Bologna e per quella la fuga dell'esercito, fattosegli incontro accompagnato da pochi, ed entrato tra' cavalli della sua guardia che per riverenza gli davano luogo, ammazzò di sua mano propria con uno pugnale il cardinale: degno, forse, per tanta degnità di non essere violato ma degnissimo, per i suoi vizi enormi e infiniti, di qualunque acerbissimo supplizio. Il romore della morte del quale pervenuto subitamente al papa, cominciò con grida insino al cielo e urli miserabili a lamentarsi; movendolo sopramodo la perdita di uno cardinale che gli era tanto caro, e molto piú l'essere in su gli occhi suoi e dal proprio nipote, con esempio insolito, violata la degnità del cardinalato, cosa tanto piú molesta a lui quanto piú faceva professione di conservare ed esaltare l'autorità ecclesiastica: il quale dolore non potendo tollerare, né temperare il furore, partí il dí medesimo da Ravenna per ritornarsene a Roma.


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Storia d'Italia
di Francesco Guicciardini
pagine 2094

   





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