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      Lib.10, cap.4
     
      Grave malattia del pontefice e tentativo di giovani della nobiltà romana di infiammare il popolo contro il potere sacerdotale. Bolla pontificia contro la simonia nell'elezione de' papi. Il pontefice indeciso fra la pace e la preparazione della guerra alla Francia. Indecisione e sospetti del re di Francia.
     
      Nella quale dubietà mancò poco che non troncasse tutte le pratiche, e i princípi de' mali che s'apparecchiavano, la morte improvisa del pontefice: il quale, infermatosi il decimosettimo dí di agosto, fu il quarto dí della infermità oppressato talmente da uno potentissimo sfinimento che stette per alquante ore riputato dai circostanti per morto; onde, corsa la fama per tutto avere terminato i suoi giorni, si mossono per venire a Roma molti cardinali assenti, e tra gli altri quegli che aveano convocato il concilio. Né a Roma fu minore sollevazione che soglia essere nella morte de' pontefici: anzi apparirno semi di maggiori tumulti, perché Pompeio Colonna vescovo di Rieti e Antimo Savello, giovani sediziosi della nobiltà romana, chiamato nel Capitolio il popolo di Roma, cercorno di infiammarlo con sediziosissime parole a vendicarsi in libertà: assai essere stata oppressa la generosità romana, assai avere servito quegli spiriti domatori già di tutto il mondo; potersi per avventura, in qualche parte scusare i tempi passati per la riverenza della religione, per il cui nome accompagnato da santissimi costumi e miracoli, non costretti da arme o da violenza alcuna, avere ceduto i maggiori loro allo imperio de' cherici, sottomesso volontariamente il collo al giogo tanto suave della pietà cristiana; ma ora, quale necessità quale virtú quale degnità coprire in parte alcuna l'infamia della servitú? la integrità forse della vita? gli esempli santi de' sacerdoti? i miracoli fatti da loro? e quale generazione essere al mondo piú corrotta piú inquinata e di costumi piú brutti e piú perduti? e nella quale paia solamente miracoloso che Iddio, fonte della giustizia, comporti cosí lungamente tante sceleratezze? sostenersi forse questa tirannide per la virtú dell'armi, per la industria degli uomini o per i pensieri assidui della conservazione della maestà del pontificato? e quale generazione essere piú aliena dagli studi e dalle fatiche militari? piú dedita all'ozio e ai piaceri? e piú negligente alla degnità e a' comodi de' successori? avere in tutto il mondo similitudine due principati, quello de' pontefici romani e quello de' soldani del Cairo, perché né la degnità del soldano né i gradi de' mammalucchi sono ereditari ma passando di gente in gente si concedono a' forestieri: e nondimeno essere piú vituperosa la servitú de' romani che quella de' popoli dello Egitto e della Soría, perché la infamia di coloro ricompera in qualche parte l'essere i mammalucchi uomini bellicosi e feroci, assuefatti alle fatiche e a vita aliena da tutte le delicatezze; ma a chi servire i romani? a persone oziose e ignave, forestieri e spesso ignobilissimi non meno di sangue che di costumi; tempo essere di svegliarsi oramai da sonnolenza sí grave, di ricordarsi che l'essere romano è nome gloriosissimo quando è accompagnato dalla virtú, ma che raddoppia il vituperio e la infamia a chi ha messo in dimenticanza l'onorata gloria de' suoi maggiori; appresentarsi facilissima l'occasione, poi che in sulla morte del pontefice concorreva la discordia tra loro medesimi disunite le volontà de' re grandi, Italia piena d'armi e di tumulti, e divenuta, piú che mai in tempo alcuno, odiosa a tutti i príncipi la tirannide sacerdotale.


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Storia d'Italia
di Francesco Guicciardini
pagine 2094

   





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