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      In questo stato delle cose, diffidando ciascuna delle parti di porre con celerità fine alla guerra, niuno tentava di mettere in pericolo la somma delle cose. L'ammiraglio, non pensando all'espugnazione di Milano, avea collocata la speranza o che gl'inimici s'avessino a dissolvere per mancamento di danari o che fussino costretti, per carestia di vettovaglie, abbandonare Milano; ove con tutto fusse copia di frumento, nondimeno, in tanto popolosa città, la moltitudine di coloro che se n'aveano a nutrire era quasi innumerabile; e avendo egli levate l'acque e impediti i mulini, vi era difficoltà grande di macinare. Per questa cagione richiamate le genti dalla Ghiaradadda le fece fermare tra Moncia e Milano, acciò che i milanesi, i quali erano privati delle vettovaglie che solevano concorrere per le strade di Lodi e di Pavia, rimanessino privati eziandio di quelle che solevano ricevere dal monte di Brianza. Ma non bastavano queste cose a fare l'effetto desiderato dallo ammiraglio. Da altra parte, per consiglio di Prospero Colonna, con tutto che avesse oppresso il corpo da grave infermità né meno affaticato l'animo, non potendo tollerare, per la cupidità di conservarsi il primo luogo, la venuta del viceré di Napoli, si faceva diligenza per interrompere le vettovaglie agli inimici, le quali venivano dalla parte di là dal fiume del Tesino, perché la fortezza del sito nel quale alloggiavano non lasciava speranza alcuna di cacciargli con l'armi. Perciò procurò Prospero che in Pavia entrasse il marchese di Mantova.


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Storia d'Italia
di Francesco Guicciardini
pagine 2094

   





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