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      Ma Alarcone, conoscendo essere vana la speranza del difendersi e presentito approssimarsi già l'avanguardia franzese, uscí per la porta Romana alla via di Lodi; ove eziandio si era voltato tutto l'esercito imperiale, nel tempo medesimo che gli inimici cominciavano a entrare per le porte Ticinese e Vercellina: i quali, se non si volgendo a Milano avessino atteso a seguitare l'esercito di Cesare, stracco per la lunghezza del cammino nel quale aveano perdute molte armi e cavalli, si crede per certo che con somma facilità l'arebbono dissipato; e se pure, poi che erano accostati a Milano, fussino andati subito verso Lodi, non arebbono avuto i capitani di Cesare ardire di fermarvisi; e forse, passando con celerità il fiume dell'Adda, arebbono con la medesima facilità messo in disordine grande le reliquie degli inimici. Ma il re, o parendogli forse di molta importanza lo stabilire alla sua divozione Milano, nella quale città gli era sempre stata fatta la resistenza principale, o non conoscendo l'occasione o movendolo altra cagione, non solamente si accostò a Milano, dove né entrò egli né volle che l'esercito entrasse, ma si fermò per mettervi il presidio necessario e ordinare l'assedio del castello, nel quale erano settecento fanti spagnuoli; avendo, con laude grande di modestia e benignità, proibito che a' milanesi non fusse fatta molestia alcuna.
      Ordinate che ebbe le cose di Milano voltò l'esercito a Pavia, giudicando essere inutile alle cose sue lasciarsi dopo le spalle una città nella quale erano tanti soldati: e avea il re, secondo che era la fama, computati quegli che rimanevano a Milano, dumila lancie ottomila fanti tedeschi seimila svizzeri seimila venturieri quattromila italiani, i quali italiani dipoi molto si augumentorono.


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Storia d'Italia
di Francesco Guicciardini
pagine 2094

   





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