Dimostravano quanto fusse pericoloso stare con l'esercito in mezzo di una città, nella quale erano cinquemila fanti di nazione bellicosissima, e di uno esercito che veniva per soccorrerla, potente e di numero d'uomini e di virtú e di esperienza di capitani e di soldati, e feroce per le vittorie ottenute per il passato, e il quale avea collocato tutte le speranze sue nel combattere. Non essere infamia alcuna il ritirarsi quando si fa per prudenza non per timidità, quando si fa per ricusare di non mettere in dubbio le cose certe, quando il fine propinquo della guerra ha a dimostrare a tutto il mondo la maturità del consiglio; e niuna vittoria essere piú utile piú preclara piú gloriosa che quella che s'acquista senza danno e senza sangue de' suoi soldati; e la prima laude nella disciplina militare consistere piú nel non si opporre senza necessità a' pericoli, nel rendere, con la industria con la pazienza e con l'arti, vani i conati degli avversari, che nel combattere ferocemente. Il medesimo era consigliato al re dal pontefice, a cui il marchese di Pescara, temendo di tanta povertà, aveva prima significato, le difficoltà dell'esercito di Cesare essere tali che gli troncavano quasi tutta la speranza di prosperi successi. Nondimeno il re, le cui deliberazioni si reggevano solamente co' consigli dell'ammiraglio, avendo piú innanzi agli occhi i romori vani, e per ogni leggiero accidente variabili, che la sostanza salda degli effetti, si riputava ignominia grande che l'esercito, nel quale egli si trovava personalmente, dimostrando timore cedesse alla venuta degli inimici; e lo stimolava (quello di che quasi niuna cosa fanno piú imprudentemente i capitani) che si era quasi obligato a seguitare co' fatti le parole dette vanamente: perché e palesemente aveva affermato, e molte volte in Francia e per tutta Italia significato, che prima eleggerebbe la morte che muoversi senza la vittoria da Pavia.
| |
Pescara Cesare Francia Italia Pavia
|