Il duca di Urbino intratanto, inteso l'accidente di Roma, ancora che affermasse volere soccorrere con tutte le forze il pontefice, nondimeno, parendogli occasione di levare lo stato di Perugia di mano di Gentile Baglione, mantenutovi con l'autorità del pontefice, e rimetterlo in arbitrio de' figliuoli di Giampaolo, accostatosi con le genti de' viniziani a Perugia, costrinse con minacce Gentile a partirsene; e lasciatavi guardia sotto capi dependenti da Malatesta e da Orazio, de' quali l'uno era rinchiuso in Castello Santo Agnolo l'altro era in Lombardia con le genti de' viniziani, poiché, in questa fazione ebbe consumato tre dí, si condusse, a' quindici o a' sedici, a Orvieto, essendo stato causa di molta dilazione il cammino preso da lui dall'alloggiamento di Cortona per andare di là dal Tevere alla volta di Roma. A Orvieto si convenneno insieme tutti i capi dello esercito per risolvere le fazioni future. Sopra le quali il duca di Urbino, mostrato nel preambolo delle parole caldezza grande, proponeva molte difficoltà, ricordando sopra tutto il pensare alla sicurtà della ritirata se non riuscisse il soccorso del Castello; però volle statichi da Orvieto, per assicurarsi che nel ritorno non mancherebbeno di dare le vettovaglie allo esercito; e interponendo a tutte le cose lunghezza di tempo, risolvé finalmente di essere a' diciannove a Nepi, e che il dí medesimo il marchese con le sue genti e il conte Guido co' fanti italiani fussino a Bracciano, per andare tutti il dí seguente all'Isola, luogo lontano da Roma nove miglia: dove non furono gli eserciti (perché il duca soprastette a Nepi) prima che a' ventidue.
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