I ritratti di quei sette reverendi personaggi decoravano la sala, e codesta data memorabile, 29 luglio 1714, era stata scolpita a lettere su una lastra di marmo. L'ospedale era una casa angusta e bassa, ad un sol piano, con un giardinetto.
Tre giorni dopo il suo arrivo, il vescovo visitò l'ospedale; finita la visita, fece pregare il direttore d'aver la compiacenza di passare da lui.
«Signor direttore dell'ospedale,» gli disse, «quanti malati avete, in questo momento?»
«Ventisei, monsignore.»
«Come avevo contato io,» disse il vescovo.
«I letti,» rispose il direttore, «son molto vicini l'uno all'altro.»
«L'ho notato anch'io.»
«Le sale non sono che stanze e l'aria vi si rinnova difficilmente.»
«Mi sembra bene.»
«Eppoi, quando c'è un raggio di sole, il giardino è troppo piccolo per i convalescenti.»
«È quello che mi dicevo.»
«Durante le epidemie (quest'anno abbiamo avuto il tifo e due anni fa la febbre miliare), ci sono talvolta cento malati e non sappiamo come fare.»
«Era proprio il mio pensiero.»
«Cosa volete, monsignore?» disse il direttore. «Bisogna rassegnarsi.»
Questa conversazione si svolgeva nella sala da pranzo-galleria del pianterreno. Il vescovo rimase un po' in silenzio, poi si voltò bruscamente verso il direttore dell'ospedale.
«Signore,» disse, «quanti letti ritenete che possano starci in questa sola galleria?»
«Nella sala da pranzo di monsignore?» esclamò il direttore, stupefatto.
Il vescovo percorreva la sala collo sguardo e pareva facesse cogli occhi misure e calcoli.
«Terrebbe certo venti letti!
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