Nella stessa camera del vescovo, vicino al capezzale, v'era uno stipetto nel quale la signora Magloire chiudeva ogni sera le sei posate d'argento ed il cucchiaione; inutile dire che la chiave non veniva mai tolta.
Il giardino, un po' guastato dalle costruzioni piuttosto brutte di cui abbiamo parlato, si componeva di quattro viali irraggianti a croce da una specie di vasca; un altro viale circondava il giardino, svolgendosi lungo il muro bianco di cinta. Quei viali limitavan quattro appezzamenti, cintati di bosso; in tre di essi la signora Magloire coltivava i legumi, nel quarto, il vescovo aveva posto dei fiori. Qua e là v'era qualche albero da frutta.
Un giorno la signora Magloire gli aveva detto, con una sorta di dolce malizia: «Dal momento che traete vantaggio da tutto, monsignore, guardate quell'aiuola inutile. Sarebbe meglio cavarne insalata, piuttosto che mazzi di fiori.» «Signora Magloire,» aveva risposto il vescovo, «vi sbagliate. Il bello è altrettanto utile dell'utile stesso.» E aggiunse, dopo una pausa: «Forse di più.»
Quell'appezzamento, composto di tre o quattro aiuole, teneva occupato monsignor vescovo quasi quanto i suoi libri. Egli vi passava volentieri un'ora o due, tagliando, sarchiando e praticando qua e là nel terreno delle buche in cui metteva i semi; non era però così ostile agli insetti come avrebbe dovuto esserlo un giardiniere. Del resto, nessuna pretesa di botanica; egli ignorava i gruppi e il solidismo, non cercava per nulla di decidere fra Tournefort e il metodo naturale e non parteggiava per gli otricoli contro i cotiledoni, né per Jussieu contro Linneo.
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