Aveva camminato diritto allo scopo, senza vacillare una sola volta sulla linea del suo vantaggio e del suo interesse. Era un antico procuratore, commosso dal successo e non malvagio, che faceva tutti i vantaggi possibili ai figli, ai generi, ai genitori e perfino agli amici, un uomo che aveva saviamente preso la vita dal suo lato buono, al pari delle buone occasioni e della buona fortuna. Il resto gli sembrava piuttosto sciocco; era intellettuale e abbastanza letterato, per l'appunto, per credersi un discepolo d'Epicuro, mentre forse era solo un prodotto di Pigault-Lebrun. Rideva volentieri e piacevolmente delle cose infinite ed eterne, come delle «corbellerie di quel buon uomo di vescovo», e ne rideva talvolta, con amabile autorità, davanti allo stesso monsignor Myriel, che lo ascoltava.
Durante una certa cerimonia semiufficiale, il conte *** (quel senatore) e monsignor Myriel dovettero pranzare in casa del prefetto.
Dopo la frutta, il degno senatore, un po' allegro, sebbene sempre dignitoso, esclamò:
«Perbacco! Discorriamo, signor vescovo. Un senatore e un vescovo difficilmente si guardano senza strizzar l'occhio, noi siamo due àuguri. Vi faccio una confessione: che, cioè, ho la mia filosofia anch'io.»
«Ed avete ragione,» rispose il vescovo. «Ci si corica a seconda del modo in cui è fatta la propria filosofia: e voi siete su un letto di porpora, signor senatore.»
Il senatore, incoraggiato, replicò:
«Cerchiamo d'essere buoni ragazzi.»
«Magari buoni diavoli,» disse il vescovo.
«Vi dichiaro,» riprese il senatore «che il marchese d'Argens, Pirrone, Hobbes e il signor Naigeon non sono cialtroni; nella mia biblioteca ho tutti questi filosofi, con dorature sulle costole.
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